27.7.02

Le mani e i rituali, credere e testimoniare

In una procedura, a rigor di logica (per quanto la logica possa entrarci), basterebbe esserci, essere, per “fare”. Null’altro dovrebbe occorrere.
Però le mani servono, per due ordini di ragioni probabilmente: primo perché se è vero che siamo antenne, dobbiamo aiutare la ricezione.
E il funzionamento credo avvenga secondo un principio che in senso generale vale per tutti i rituali. Un po’ come la ninna nanna che cantiamo ai bambini: loro si addormentano perché sentono il nostro rilassamento e non tanto per la canzone che ascoltano. Noi ci rilassiamo cantando loro la ninna nanna perché finalmente ci distacchiamo dalle mille piccole incombenze, che per quanto possano essere importanti per la vita pratica, risultano essenzialmente vuote nel momento in cui tendiamo a trasformarle in false finalità. Allo stesso modo, quando accendiamo un incenso o una candela, quando purifichiamo la casa, quando recitiamo una preghiera o un mantra, quando cantiamo, favoriamo il contatto con il sé superiore perché ci predisponiamo ad accogliere la connessione (che si esplicherà in modo più o meno eclatante: scrittura, meditazione, onde, gioia, visioni, rilassamento, luce, serenità, pienezza...).
L'altro motivo per cui è richiesta la ritualità (beninteso, non necessariamente codificata) e dunque anche i movimenti delle mani, è che esponendoci di fronte agli altri, ma soprattutto di fronte a noi stessi, testimoniamo e attestiamo nei fatti, nelle parole e negli atti, di credere.

E forse anche chiedere a chi già sa, altro significato non può avere se non quello di arrendersi al credere.
Credere in noi, nel nostro valore, nella possanza della nostra pienezza, nel potere della nostra parola, ma soprattutto nell'immensità della connessione universale, di cui facciamo parte e che animiamo in quanto vortici di luce, piccoli ma unici, innumerevoli ma tutti dotati di bellezza propria, degni di ogni potenzialità.

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